IL PENSIERO DI EDITH STEIN

da | Gen 25, 2014 | FILOSOFIA, SPIRITUALITÀ

IL PENSIERO DI EDITH STEIN

da | Gen 25, 2014 | FILOSOFIA, SPIRITUALITÀ

“Ebrea, filosofa, carmelitana, martire, Edith Stein (1891-1942), ‘che porta nella sua intensa vita una sintesi drammatica del nostro secolo’ (Giovanni Paolo II, 1 maggio 1985), e che la Chiesa annovera fra i suoi santi (dall’11 ottobre 1998apre cammini di rapporto e di comunione in ambiti e a livelli diversi, ma in punti nodali dell’esperienza umana, cristiana, ecclesiale, interreligiosa”.

Di questa figura femminile così ricca e poliedrica altri esperti hanno scritto e scriveranno per lumeggiare il contributo di pensiero e di azione nei diversi ambiti. Per esempio, nell’ambito culturale sociale: Edith si adoperò, con scritti, lezioni e conferenze, a promuovere il ruolo della donna nella società e nella Chiesa. Con ricerche sulla nozione dello Stato ne chiarì il rapporto con la nazione, con il popolo e la società, e anche il suo precario equilibrio con la sfera religiosa. Lei che all’inizio era fortemente nazionalista e “prussiana”, dopo la grande guerra parteggiò per la repubblica di Weimar, e s’impegnò fortemente a contrastare i primi successi del partito nazionalsocialista.

Soprattutto nell’ambito filosofico, Edith ha lasciato segni incancellabili di originalità: lei che era l’allieva e assistente prediletta di Husserl, a Friburgo, e avrebbe meritato di succedergli nella cattedra, (la prese invece Heidegger, che si mostrò acquiescente col nazismo!) superando il maestro, tentò di gettare un ponte tra la filosofia contemporanea, sintetizzata nella fenomenologia husserliana e la tradizione medievale, espressa dalla filosofia di S.Tommaso, scavalcando la neo-scolastica.

Il suo capolavoro resta Essere finito ed Essere eterno, quasi una nuova ontologia, sintesi di filosofia e mistica. Se avesse potuto continuare le sue ricerche e creare un movimento di pensiero, com’era nella sua indole, forse l’avremmo salutata come la più grande filosofa dei secolo!

Infine, nell’ambito religioso mistico, attraversando la spiritualità domenicana, benedettina e approdando alla mistica di S.Teresa d’Avila e di S.Giovanni della Croce, portò a compimento il suo progetto di vita: pensiero ed esperienza della Croce con Cristo crocifisso, come sacrificio-donazione per la salvezza del suo popolo.

Il suo ultimo scritto, “La scienza della croce” (Scientia Crucis), rimase incompiuto, proprio perché lo avrebbe concluso in una camera a gas nel campo di Auschwitz!.

In tutti questi ambiti, sia col pensiero sia con l’azione, il filo rosso della continuità è stato la “intersoggettività”, (einfulung, “empatia”, intuizione empatica), la “comunione”. Quel che ora mi propongo è di mostrare il cammino di rapporto e di comunione che si è realizzato, nella vita di Edith, tra l’essere ebrea e l’essere santa-martire cattolica. Edith nasce a Breslavia (ora territorio polacco) il 12 ottobre 1891, in una famiglia ebrea molto praticante. Nasce, ultima di sette figli, proprio in una festa religiosa ebraica, nel giorno del Kippur, cioè dell’Espiazione. Per la madre, Augusta, questo era il presagio di un particolare destino della figlia.

Ecco come ricorda la tradizione religiosa nella famiglia materna: “I ragazzi studiarono religione sotto la guida di un professore ebreo; impararono anche un po’ di ebraico… Appresero i comandamenti, lessero brani tratti dalle scritture e impararono a memoria alcuni salmi (in tedesco). Fu sempre insegnato loro il rispetto nei confronti di qualsiasi religione, e di non parlarne mai male. Il nonno insegnò ai suoi figli le preghiere prescritte. Il sabato pomeriggio entrambi i genitori chiamavano a raccolta i figli che erano in casa, per pregare insieme con loro le preghiere vespertine e serali e spiegarle. Lo studio giornaliero delle Scritture e del Talmud – considerato un obbligo dell’uomo ebreo nei secoli precedenti e tuttora in uso presso gli ebrei orientali – non veniva più praticato a casa dei miei nonni; ciò nonostante tutti i precetti della Legge venivano osservati col massimo rigore”.

In seguito Edith racconta la pratica religiosa vissuta nella famiglia in occasione delle feste principali. Ma qualche annotazione ci apre alla comprensione del tipo di educazione assimilata. Per esempio, in occasione della liturgia del Seder (la Pasqua), annota: “la solennità della festa soffriva del fatto che soltanto mia madre e i bambini più piccoli vi partecipavano con devozione. I fratelli che dovevano dire le preghiere al posto di nostro padre, che era morto, lo facevano in modo poco dignitoso. Quando il maggiore mancava e il minore assumeva le funzioni di padrone di casa, faceva chiaramente notare quanto si prendesse intimamente gioco di tutto questo”.

E in occasione della festa dell’Espiazione (Kippur): “Quella sera non solo mia madre andava al tempio, ma era accompagnata dalle sorelle più grandi, e anche i fratelli consideravano un loro dovere morale il non mancare… Nessuno di noi si dispensava dal digiuno, anche quando non condividevamo più la fede di mia madre e non ci attenevamo più alle prescrizioni rituali al di fuori di casa nostra”.

Quello dunque che di questo ambiente ha messo forti radici in Edith non è la fede nel Dio d’Israele, ma un forte rigore morale, derivante dalla Legge. “La mamma ci insegnava l’orrore del male. Quando diceva: “è peccato”, quel termine esprimeva il colmo della bruttezza e della cattiveria, e ci lasciava sconvolti”.

Cosi altrove Edith ricorda gli anni dell’infanzia. Lei stessa, ormai sul punto di trasferirsi da Breslavia all’Università di Gottinga (1911), si confessa “non credente, dotata di forte idealismo etico”. Conserverà grande stima e ammirazione per la pietà religiosa della madre, e la accompagnerà sempre, quando è in famiglia, alla funzione della sinagoga, anche dopo il battesimo, anche alla vigilia dell’ingresso nel Carmelo.

Qualche tratto della sua limpidezza morale: quando attraverso la lettura di un testo romanzato le si rappresentò la vita studentesca con tratti ripugnanti, dissolutezza, alcolismo, ecc., ne rimase nauseata a tal punto che non poté, per settimane intere, ristabilirsi nella propria allegria. Eppure Edith, sebbene esteriormente riservata e dedita con abnegazione al lavoro, portava nel cuore “la speranza di un grande amore e di un matrimonio felice”, e annota: “Senza avere alcuna conoscenza della dogmatica e della morale cattolica, ero tuttavia impregnata dell’ideale matrimoniale cattolico”. Al rigore morale in Edith corrisponde, nella sua vivace e profonda intelligenza, la ricerca e la sete della verità. Non poteva sentirsi soddisfatta della corrente psicologista di tipo positivistico, prevalente nell’Università di Breslavia, e perciò si orientò, appena ne venne a conoscenza, verso la “Fenomenologia” di Edmund Husserl, cattedratico a Gottinga.

Ecco come, dopo anni di esperienza, descrive il metodo di Husserl: “Il suo modo di guidare lo sguardo sulle cose stesse e di educare a coglierle intellettualmente con assoluto rigore, a descriverle in maniera sobria, fedele e coscienziosa, ha liberato i suoi allievi da ogni arbitrio e da ogni fatuità nella conoscenza, portandoli a un atteggiamento cognitivo semplice, sottomesso all’oggetto e perciò umile. Nello stesso tempo ha insegnato a liberarsi dai pregiudizi e a togliere tutti gli ostacoli che potrebbero distruggere la sensibilità verso intuizioni nuove. Questo atteggiamento, a cui ci ha responsabilmente educati, ha liberato molti di noi, rendendoci disponibili nei confronti della verità cattolica”.

Ma già a partire dai primi anni di Gottinga (1911-1914) annota: “Avevo un profondo rispetto per le questioni di fede e avevo conosciuto persone credenti; a volte andavo addirittura in una chiesa – protestante – con le mie amiche… ma non avevo ancora ritrovato la via verso Dio” . E’ un fatto storico notevole: nel gruppo di allievi e collaboratori di Husserl ci sono state parecchie conversioni religiose. Lo stesso Husseri e la moglie erano passati dal giudaismo al protestantesimo, alla Chiesa Riformata luterana di Vienna, dove ricevettero il battesimo (Husserl aveva 27 anni). I figli erano stati istruiti nella religione protestante.

Sebbene nel suo lavoro filosofico non si ponga esplicitamente il problema religioso e affermi di non essere un filosofo cristiano, pure, in una conversazione privata con l’allieva e amica di Edith, Aldegonda, esclama: “Ve l’ho detto tante volte: la mia filosofia, la fenomenologia, non vuole essere altro che una via, un metodo che permetta a coloro che si sono allontanati dal cristianesimo e dalla Chiesa di ritornare verso Dio”. Nel gruppo husserliano spicca il prof.Adolf Reinach che, insieme alla moglie Anna si converte dal giudaismo alla fede evangelica. E questa, dopo la morte in guerra dei marito, passa alla Chiesa cattolica. Lo stesso avverrà della moglie del prof.Husserl e del prof. Alessandro Koyré, anche lui convertito.

La prof.ssa Hedwig Conrad-Martius, convertitasi alla fede evangelica con il marito, saranno grandi amici di Edith, ed è nella loro casa che Edith avrà la grande folgorazione, dopo la lettura – tutta d’un fiato – dell’Autobiografia di S.Teresa d’Avila: “Questa è la verità!” E sarà l’amica Hedwig, protestante, a fare da madrina al battesimo cattolico di Edith.

Ma fu sotrattutto Max Scheler, aggiuntosi più tardi al gruppo e spesso in polemica con Husseri, a esercitare influenza su Edith: “la maniera che aveva… di diffondere sollecitazioni geniali, senza approfondirle sistematicamente, aveva qualcosa di brillante e seducente” . I suoi scritti riguardanti i valori e l’empatia avevano per Edith un’importanza particolare. Proprio allora cominciò ad occuparsi dei problema della Einfulung (empatia, intuizione empatica) che fu l’argomento della sua tesi di laurea.

Ma l’influenza di Scheler acquistò importanza anche al di là dell’ambito filosofico. Egli infatti era passato dal giudaismo alla Chiesa cattolica, ma poi, per motivi di vita privata, se n’era allontanato e infine vi era rientrato. Scheler “aveva molte idee cattoliche e sapeva divulgarle facendo uso della sua brillante intelligenza e abilità linguistica. Fu cosi che venni per la prima volta in contatto con un mondo che fino ad allora mi era stato completamente sconosciuto. Ciò non mi condusse ancora alla fede, tuttavia mi dischiuse un campo di “fenomeni” dinanzi ai quali non potevo più essere cieca… I limiti dei pregiudizi razionalistici nei quali ero cresciuta senza saperlo, caddero, e il mondo della fede comparve improvvisamente dinanzi a me. Persone con le quali avevo rapporti quotidiani e alle quali guardavo con ammirazione, vivevano in quel mondo. Doveva perciò valere la pena almeno di riflettervi seriamente. Per il moniento non mi occupai metodicamente di questioni religiose; ero troppo occupata in molte altre cose. Mi accontentai di accogliere in me, senza opporre resistenza, gli stimoli che mi venivano dall’ambiente che frequentavo, e quasi senza accorgermene ne fui pian piano trasformata”.

In realtà in questi anni di Gottinga la “sete della verità” che Edith diceva essere la sua unica preghiera, inconsciamente si trasformava in “sete di Dio”. Quando, per esempio nel 1916, alla vigilia della discussione della tesi, a Friburgo, ha una lunga conversazione con Hans Lipps, uno dei gruppo che ironizza sul fervore di due amici, Dietrich von Hildebrand e Siegfried Hamburger, convertiti al cattolicesimo, Edith annota: “No, io non ero tra quelli. Avrei quasi detto: “Purtroppo no””. L’amico afferma di non capirci niente, e lei: “Io capivo un poco. Ma non potevo dire molto in proposito”.

Nel 1915 scoppia la Prima Guerra mondiale. Edith, appena superato l’esame di Stato in Filosofia, fece domanda alla Croce Rossa per entrare nel servizio sanitario. E così si trovò a prestare servizio come “ausiliaria”, per vari mesi, presso un grande ospedale militare per malattie infettive a Weisskirchen, in territorio austriaco. Alle rimostranze della madre per tale decisione oppone: “Se la gente era costretta a soffrire giù nelle trincee, perché io dovevo stare meglio di loro?”. Per parte sua, vorrebbe ancora continuare questo servizio, pensando a tanti suoi colleghi che stanno al fronte (e qualcuno non ne ritornerà vivo). Ma non ottiene il rinnovo. Certamente questa esperienza è stata per Edith occasione di crescita spirituale, come distacco da sé e dai propri progetti scientifici, maggiore apertura agli altri e incontro reale con la sofferenza e la morte. Per la serietà e la dedizione al lavoro infermieristio, alla fine della guerra le viene assegnata la “medaglia del coraggio” della Croce Rossa.

Nella vita della giovane Edith in questi anni (1915-1919, non mancano prove, come delusioni affettive, problemi familiari, crisi intellettuali, alle prese con gli sviluppi dei cammino “fenomenologico” del maestro Husserl, di cui è diventata assistente. Edith non condivide questi sviluppi, e sente il peso troppo forte di questa collaborazione. Lei che ha tanto desiderato un posto d’insegnamento all’Università – e lo stesso Husserl appoggia la sua domanda – vede fallire ogni tentativo in proposito (ottobre 1919).

Ma nel novembre 1917 riceve la notizia della morte di Adolf Reinach, ucciso sul fronte delle Ardenne. Per Edith è un trauma, perché, oltre che maestro, Adolf Reinach è per lei amico e confidente. Ora, stando accanto alla vedova Anna Reinach, e collaborando con lei per classificare le carte dei marito in vista della pubblicazione, fa un’esperienza di vita in chiave di fede, tutta positiva.

I coniugi Reinach si erano appena da un anno convertiti al protestantesimo. Ma già il marito si sentiva vicino al cattolicesimo, come appariva dai suoi Appunti su una fìlosofia della religione. Era stata la moglie a voler presto il battesimo: “non pregiudichiamo il futuro; quando saremo in comunione con Cristo, ci porterà dove vorrà. Entriamo nella sua Chiesa, non posso aspettare di più!”.

E proprio in questa prova suprema, la morte dei marito, Anna attinge nella “comunione con Cristo” tanta forza e tanta pace che è lei non a ricevere da altri, ma a dispensare consolazione a quelli che la circondano. Per Edith è un’esperienza della Croce di Cristo, determinante, come in seguito confiderà al P.Hirschmann, gesuita. Edith arriva al battesimo il I° gennaio 1922. Aveva lasciato il suo lavoro di assistente di Husserl (1919) e si era ritirata a Breslavia, concentrandosi nella ricerca personale filosofica e religiosa, e anche elaborando nuove forme di insegnamento. Passa lunghi periodi ospite degli amici Conrad-Martius, a Bergzabem nel Palatinato, anche lavorando duramente nei campi, con dedizione inesauribile… molto silenziosa e segreta… sembrava sempre concentrata, come assorbita in una meditazione ininterrotta…

La domenica accompagnava Hedwig alla chiesa protestante, per la funzione. Un giorno osservò: “Per i protestanti il cielo è chiuso, per i cattolici invece è aperto”. Anche prima della conversione, Edith aveva profondo rispetto per l’Eucaristia, presagendovi un mistero ineffabile. Uno squarcio autobiografico sul dramma interiore che sta vivendo lo possiamo leggere in un testo scritto da Edith sulla “Causalità psichica”pubblicato proprio nel 1922 negli Annali di Husserl: “Faccio progetti per l’avvenire e organizzo di conseguenza la mia vita presente. Ma nel profondo sono convinta che si produrrà un qualche avvenimento che butterà a mare tutti i miei progetti. E’ la fede viva, la fede autentica alla quale ancora rifiuto di consentire, è a questa fede che io impedisco di divenire attiva dentro di me”.

Il testo, molto bello, continua descrivendo la trasformazione che avviene in questo stato di “riposo in Dio”, a partire dal silenzio della morte e sfociante in un afflusso di vita nuova, per la presenza di una “Forza che non è mia e che senza fare violenza alcuna alla mia attività, diventa attiva in me”.

Possiamo allora cogliere il senso del grido: “Questa è la verità!”, che Edith sente risuonare nel suo spirito, al termine della lettura dell’Autobiografia di S.Teresa d’Avila, con queste parole: “Realizzo pienamente la verità nel donarmi, nell’abbandonarmi totalmente all’Amore” (cf. Giov. 3,21; Ef 4,15). La “fede” in Cristo non era solo la conclusione della sua lunga ricerca intellettuale, ma la sintesi di una “nuova vita” operata dalla grazia.

La conversione è un punto molto importante per capire quanto sia “profetica” la vicenda di Edith. Si pensi a quel che avviene, più o meno negli stessi anni, in un altro gruppo di amici ebrei passati al cristianesimo evangelico: Eugen Rosenstock, Hans e Viktor Eherenberg, gravitanti intorno all’università di Lipsia.

Uno di loro, Franz Rosenzweig (1886-1929), in un primo momento stava per decidersi per il battesimo, ma poi ha un sussulto di orgoglio della propria radice ebraica, e polemicamente, in un confronto durato a lungo con l’amico Rosenstock, nega che possa esserci una base comune tra l’ebreo come tale e il cristiano di ascendenza ebraica. “Non c’è più alcun substrato ebraico vivo entro al cristiano militante e tanto meno, a parere di Rosenzweig, vi è liceità alcuna per l’ibrido giudeo-cristiano. Divenendo cristiani non si è più ebrei, si è cessato competamente di esserio. Anzi… in verità non lo si è mai stati, altrimenti la viva appartenenza alla comunità sinagogale non avrebbe reso possibile il passaggio al cristianesimo”.

Questa era la mentalità dominante. La madre di Edith, per esempio, non poté mai capire e accettare che la figlia, che pur continuava a frequentare con lei la sinagoga, si fosse rivolta a Cristo: era un tradimento, una separazione radicale dai beni più cari: il proprio popolo, la propria religione! Lo stesso grande filosofo ebreo Henry Bergson, che era approdato, nel suo lungo percorso, al Cristo dei vangeli, negli ultimi anni di vita (1859-1941) esitava a farsi battezzare nella Chiesa cattolica, per timore che il gesto fosse interpretato come un distacco dal suo popolo proprio nel momento più duro della persecuzione nazista.

Ora è indubitabile che la conversione a Cristo di Edith – avvenuta col battesimo del I° gennaio 1922 – non solo non segnò il distacco e tanto meno il tradimento del suo essere Ebrea, ma, paradossalmente, segnò una nuova riscoperta della propria ebraicità.

Disse un giorno Husserl, parlando della conversione di Edith Stein: “In lei tutto è autentico… Ma, in fin dei conti, c’è, in fondo a ogni ebreo, un assolutismo e un amore del martirio”.

Proprio cosi, da “vera ebrea” attirata da Dio, Edith vive solo per lui, con lo sguardo fisso sul suo Signore crocifisso, Gesù nazareno, Re dei giudei, e il desiderio di immolarsi per Cristo è tuttuno col desiderio di immolarsi per il suo popolo.

Su questo argomentooltre alle fonti citate, ho trovato in Internet un ottimo studio del P.Jean Sleiman, Definitore Generale dell’Ordine dei Carmelitani Scalzi, letto nel Simposio Internazionale su Edith Stein, tenutosi al Teresianum di Roma nell’ottobre 1998, in occasione della canonizzazione.

La mentalità dominante nell’ambiente familiare viene espressa – a distanza di tempo – da una nipote di Edith, Susanne Batzdorff-Biberstein: “Diventando cattolica nostra zia aveva abbandonato il suo popolo; il suo ingresso in convento manifestava di fronte al mondo esterno una volontà di separarsi dal popolo ebreo”.

Al contrario, nell’omelia per la beatificazione (1987), Giovanni Paolo II, con cognizione di causa, affermava: “Ricevere il battesimo non significò in alcun modo per Edith Stein rompere con il mondo ebraico. Al contrario ella afferma: “Quando ero ragazza di quattordici anni smisi di praticare la religione ebraica e per prima cosa, dopo il mio ritorno a Dio, mi sono sentita ebrea”.

Edith si considera “figlia di Israele” e ne rimarrà fiera tutta la vita, perché sente che è il popolo di Cristo stesso: “Non si può neanche immaginare quanto sia importante per me, ogni mattina quando mi reco in cappella, ripetermi, alzando lo sguardo al Crocifisso e all’effigie della Madonna: erano del mio stesso sangue!” .

Al padre gesuita Hirschmann scrisse: “Non può immaginare che cosa significhi per me essere figlia del popolo eletto, significa appartenere a Cristo non solo con lo spirito, ma con il sangue”. Come “ebrea”, Edith non fa questione di “razza”. Immersa nel mistero d’Israele, contempla nel Cristo Crocifisso, “re dei giudei” la piena realizzazione delle promesse, delle attese dell’alleanza divina col suo popolo. Perciò tutti gli ebrei sono di Cristo!

Ricordiamoci la data di nascita di Edith: 12 ottobre 1891, in cui ricorreva la festa ebraica del Kippur, giorno del perdono e della riconciliazione. Ora Edith, divenuta cattolica e prossima ad entrare nel Carmelo, contempla il legame profetico tra il giorno dei Kippur e il giorno del Venerdì Santo: “Il giorno della Riconciliazione dell’Antico Testamento è la figura del Venerdì Santo: l’agnello immolato per i peccati del mondo rappresenta l’Agnello immacolato”. Il Cristo, “accettando di morire vittima, è l’eterno Sacerdote”.

Cristo, dunque, appartiene al popolo ebreo, ma anche la Chiesa – dice esultando Edith nel “Dialogo notturno”: “La Chiesa vidi nascere dal seno del mio popolo. Dal suo Cuore spuntare vidi poi, come tenero tralcio allor fiorito, l’Immacolata, la tutta Pura, di David discendente”. E “nel cuore della Vergine”, figlia d’Israele, “dal Cuore di Gesù vidi fluire la pienezza di grazia”. Il rapporto stretto con la madre Augusta, fedele osservante della fede ebraica, ci aiuta ancora a comprendere la convinzione di Edith circa la non incompatibilità tra le due fedi, ebraica e cristiana. E’ l’ultima volta che Edith accompagna la madre alla sinagoga, per la festa dei Tabernacoli (sta per entrare nel Carmelo), e nel ritornare a casa la mamma le chiede: “Non era bella la predica?” – “Sì”. “Anche nella fede ebraica si può essere religiosi, non ti pare?” – “Certamente, quando non si è conosciuto altro”. Allora la madre replica, desolata: “E tu, perché l’hai conosciuto? Non voglio dir niente contro di lui, sarà stato certamente un uomo molto buono, ma perché si è fatto Dio?”. Madre e figlia soffrono terribilmente, al punto che Edith scrive: “Ho dovuto compiere il passo da sola e totalmente immersa nella notte della fede. Spesso, nel corso di quelle settimane così dure, mi sono chiesta quale di noi due, mamma o io, ci avrebbe rimesso la salute. Ma siamo rimaste ferme sulle nostre posizioni fino all’ultimo giorno”. Eppure Edith conserva ammirazione per la fede della mamma, non per puro istinto di affetto filiale, ma per la radicata convinzione che Dio opera anche oltre i confini della Chiesa, opera anche nelle altre religioni.

Alcune lettere scritte nel 1936, nel 1938 e nel 1939, ricordano la morte della mamma: “Dio l’ha presa con lui rapidamente”; “Oggi [la mamma] celebra il suo 87° anniversario con la cara nostra Santa Teresa”. Teresa di Lisieux: era infatti il 3 ottobre 1936, giorno – a quel tempo – della sua festa. Come si vede, pone sua madre in cielo in compagnia di una santa canonizzata, nessuna reticenza circa il destino dei suoi parenti giudei!

Questo suo sentire va insieme alla chiara affermazione: “Mia madre è rimasta fino all’ultimo fedele alla sua fede. Ma dato che questa sua fede e il completo abbandono nel suo Dio l’hanno accompagnata dall’infanzia fino all’87° anno di età, e sono rimasti accesi in lei fino all’ultimo, anche mentre lottava con la morte, sono convinta che abbia trovato un giudice molto generoso ed ora aiuterà anche me ad arrivare alla meta”. Edith arriva ad attribuire dei poteri di intercessione alla madre: commentando la visita fattale dal fratello in partenza per l’America, scrive all’amica Hedwig Dulberg: “Il giorno dei morti ricorderemo entrambe le nostre mamme. Questo pensiero mi è di grande consolazione. Credo fermamente che mia madre abbia il potere di aiutare i suoi figli in pericolo” (4 ottobre 1938).

Anche per il suo “caro Maestro”, il Prof.Edmund Husserl, che era in fin di vita (1938), Edith si esprime con grande apertura di spirito: “Non sono affatto preoccupata per il mio caro Maestro. E’ stato sempre lontano da me il pensare che la misericordia di Dio si permetta di essere circoscritta ai limiti visibili della Chiesa. Dio è la verità. Chi cerca la verità, cerca Dio, che ne sia cosciente o no”. Come non ammirare queste anticipazioni profetiche delle posizioni prese dalla Chiesa, dal Concilio Vaticano II in poi, circa i rapporti ecumenici, e particolarmente con gli ebrei?

Agli inizi degli anni ’30 la Germania versava in piena crisi economica e grave instabilità politica, mentre lentamente ma inesorabilmente saliva il partito nazionalsocialista di Hitler. Edith in quegli anni si trovava come insegnante presso le Domenicane di Spira (1922-1931), e in seguito presso l’Istituto di Pedagogia scientifica di Munster (1932-1933). Contemporaneamente, però, era impegnata in conferenze pubbliche molto richieste e apprezzate su problemi dell’educazione e del ruolo della donna.

Attenta da sempre alla storia del mondo, e come cristiana educata a interpretare gli eventi alla luce del vangelo, intuì presto il carattere totalitario e anticristiano del movimento nazista: “Oggi non c’è nulla che ci manchi così tanto come il battesimo nello spirito e nel fuoco… Nella grande battaglia che, più che mai, è in corso tra Cristo e Lucifero, vi sono quelle che sono chiamate per vocazione a formare gli uomini che devono andare al fronte. Armarci per la lotta e rimanere armate in permanenza: questo è il nostro dovere più pressante”. Così Edith si rivolgeva alle sue ascoltatrici. Intanto rifletteva quale fosse il suo posto al fronte.

Edith non stenta a capire subito il futuro: il nazismo, incarnazione del Maligno, nemico della Croce, combatte Dio stesso e il suo piano salvifico, perciò non può non cominciare dal voler distruggere il giudaismo, come fondamento della stessa religione cristiana, eliminare la “peste giudeo-cristìana” per instaurare il regno della razza ariana.

Nel 1931, al momento di accomiatarsi dalle allieve di Spira, una le dice: “Ma signorina, lei è sconvolta!”. “Non posso fare a meno di essere triste e di agitarmi, quando so che Hitler arresterà molto presto i miei parenti e anche me. Cosa fare?”.

Siamo al primo venerdì d’aprile 1933: Edith, non ancora carmelitana, proprio nella cappella del Carmelo di Colonia ha una profonda esperienza spirituale: “Mi rivolgevo interiormente al Signore, dicendogli che sapevo che era proprio la sua Croce che veniva imposta al nostro popolo. La maggior parte degli ebrei non riconosceva il Signore, ma quelli che capivano non avrebbero potuto fare a meno di portare la Croce. E’ ciò che desideravo fare. Gli chiesi soltanto di mostrarmi come”.

Sentendosi seriamente coinvolta nella sorte del suo popolo, continua a interrogarsi se potesse fare qualcosa per il problema degli ebrei. “Infine avevo deciso di recarmi a Roma e di chiedere al Santo Padre [Pio XI] una Enciclica, in una udienza privata”.Risultato impraticabile questo progetto (a giudizio del suo direttore spirituale, l’Abate di Beuron, Don Walzer), Edith ripiega a scrivere una lettera al Santo Padre, nella quale non si limitava a parlare degli ebrei, ma anche del futuro della Chiesa in Germania. “So che la mia lettera gli è stata consegnata direttamente e ancora chiusa… mi sono spesso domandata se il tenore del mio messaggio abbia in qualche modo destato l’attenzione del Sommo Pontefice. Le previsioni che vi facevo, riguardanti il destino dei cattolici in Germania, si sono puntualmente realizzate” . A giudizio del P.Jan H. Nota, gesuita olandese, che fu amico di Edith e ha poi approfondito il suo pensiero, questo passo compiuto da Edith potrebbe aver influito sulle posizioni assunte da Pio XI contro il razzismo e l’antisemitismo. Sul piano dell’azione a favore del suo popolo Edith ha fatto quanto le era unianamente possibile. Ma il Signore le apre nuove vie di amore eroico per i fratelli ebrei.

Nella stessa quaresima del 1933, ospite casuale di un collega dell’Istituto di Munster, Edith, che non era conosciuta da questi come ebrea, riceve molte informazioni dai giornali americani sulle atrocità commesse contro gli ebrei tedeschi. “Avevo già saputo delle persecuzioni… ma in quel momento… vidi con chiarezza… che il destino di quel popolo diveniva tutt’uno col mio”.

Se Edith deve partecipare al destino del suo popolo, e se questo destino è portare la Croce di Cristo che gli viene imposta… si comprende come queste esperienze spirituali la preparino al passo definitivo. Cosi si esprimeva poco dopo: “Non è l’attività umana che ci può salvare, ma soltanto la passione di Cristo. Esserne partecipe, questa è la mia aspirazione”.

Tenendo presente che una caratteristica della personalità di Edith è la piena integrazione tra il pensiero e il vissuto, tra le analisi, le elaborazioni filosofico-teologiche e l’esperienza mistica, comprendiamo come la vita di carmelitana rappresenti, per lei, la piena realizzazione della sua vocazione come donna: “L’unione nuziale dell’anima con Dio è lo scopo per il quale è stata creata: redenta dalla Croce e trovando il suo compimento nella Croce, l’anima è segnata per l’eternità dal sigillo della Croce”.

Nel suo scritto di anni prima (1931) sulla “Vocazione della donna”, Edith aveva esposto il modo d’intendere la “sposa del Cristo”: “Ella sta in piedi al suo fianco, come la Chiesa e come la Madre di Dio… Là ella sta, per aiutare l’opera della redenzione. Il dono totale del suo essere e della sua vita la fa entrare nella vita e nelle fatiche di Cristo, permettendole di compatire e di morire con lui, di quella terribile morte che fu per l’umanità la sorgente della vita. La sposa di Dio conosce così una maternità soprannaturale che abbraccia l’umanità intera, sia che prenda parte attiva alla conversione delle anime sia che ottenga con la sua immolazione i frutti della grazia per coloro che non incontrerà mai sul piano umano”.

Questo è stato il progetto divino pienamente realizzatosi nella vita di Edith: il 14 ottobre 1933 entra nel Carmelo di Colonia: il 15 aprile 1934 prende l’abito del Carmelo e il nome di Teresa Benedetta della Croce, come Lei aveva chiesto; domenica di Pasqua 1935 è chiamata alla professione semplice; il 10 maggio 1938 emette la professione solenne che la unisce definitivamente a Cristo.

Con l’esperienza della Croce era cominciato il cammino della conversione. Nel giorno dei battesimo si era fortemente sentita attratta verso la vita carmelitana, il cui tratto fondamentale – come lei stessa descrive – “consiste nel soffrire con Cristo… unite al Signore… Cristo continua a soffrire in loro… a intercedere per i peccatori attraverso una sofferenza liberamente accettata e gioiosa, partecipando così alla redenzione dell’umanità”. Nel Carmelo, vivendo intensamente questa vocazione, potrà dire: “Ora so molto di più che cosa significa essere la sposa del Signore sotto il segno della Croce. E’ chiaro che non si può facilmente capire perché è un mistero… E’ ai piedi della Croce che ho capito il destino del Popolo di Dio che già si stava delineando. Ho pensato che chi lo comprende deve prendere su di sé la Croce di Cristo per tutti”.

Quando nella famosa Notte dei cristalli (8-9 novembre 1938) si scatenò il fanatismo nazista contro negozi, case, e contro le stesse persone ebree, le suore rimangono esterrefatte, e Suor Benedetta (Edith) esclama: “E’ l’ombra della Croce che si abbatte sul mio Popolo! Oh, se adesso potesse capire!”.

“E’ qui il fondamento della teologia steiniana del giudaismo… Edith Stein ama sempre il suo Popolo, ma lo percepisce con gli occhi e il cuore di Cristo. Si rivolge a Lui e vede che la sua propria Croce è stata messa sulle spalle dei Popolo giudeo. In altri termini… la sorte di Cristo con il nazionalsocialismo è pure quella degli ebrei. La missione di ambedue è identica”.

Edith non separa mai il Messia dal suo Popolo messianico… L’Anticristo (il nazismo) odia in questo Popolo la sua messianità, e quindi il legame profondo, vitale, connaturale con Cristo… E’ alla luce dell’approfondimento del mistero di Israele sotto la Croce, al di là del contesto storico, che bisogna capire il suo amore, la sua compassione e anche le sue critiche: “Il grande peccato degli Ebrei, per Edith, se si deve parlare di peccato, è di trascurare la loro missione e quindi di tradire la propria identità: popolo messianico, popolo del Messia, ma anche Popolo Messia”.

Il 30 gennaio 1939 Hitler decreta e annuncia l’annientamento della “razza ebraica”. I segni dell’imminenza del conflitto sono evidenti. Il 31 dicembre Edith si rifugia nel Carmelo di Echt in Olanda, dove nell’agosto del ’40 la raggiungerà la sorella Rosa. In questa situazione drammatica Suor Benedetta si stringe sempre più al Cuore di Gesù “per diventare la tua vera sposa. Ti prometto solennemente: ogni volta che dovrò fare una scelta prenderò ciò che ti rallegrerà di più”. Fa, cioè, il voto dei “più perfetto”.

E qualche settimana dopo, chiede alla priora di Colonia (che è rimasta la sua superiora) l’autorizzazione a “offrirmi al Cuore di Gesù come vittima espiatoria per la vera pace, augurandomi che il regno dell’Anticristo crolli, se è possibile, senza una nuova guerra mondiale, e che venga rinnovato l’ordine dei mondo”.

Infine scrive un Testamento spirituale: “Fin da adesso accetto la morte che Dio mi ha destinato e con una totale sottomissione alla sua santissima volontà. Prego il Signore di voler accettare la mia vita e la mia morte per la sua gloria, per le intenzioni dei SS.Cuori di Gesù e di Maria, per quelle della Chiesa. In particolare… in espiazione per il rifiuto della fede da parte del popolo ebreo, affinché il Signore sia accolto dai suoi e venga il suo regno nella gloria; per la salvezza della Germania e, per la pace nel mondo”. Suor Benedetta non affronta temerariamente il martirio. Memore delle parole di Gesù (Mt 10, 23): “Quando vi perseguiteranno in una città, fuggite in un’altra”, in accordo e per suggerimento degli stessi superiori, aveva cercato di farsi accogliere in un Carmelo della Svizzera, e le pratiche erano a buon punto. Ma in seguito alla convocazione ad Amsterdam da parte della Gestapo, si rende conto che non avrebbero avuto esito positivo. Si rivolge anche alla Spagna.

Intanto Suor Benedetta è tutta immersa nello studio e nella contemplazione degli scritti di S.Giovanni della Croce (per incarico della superiora, in vista di una pubblicazione per il 4° Centenario della nascita dei Santo, 1942). “Nella conclusione della sua analisi delCantico spirituale... si può leggere tutto il suo destino, discernere la luce della Croce dalla quale sarà illuminata la notte misteriosa della sua fine: … “Il matrimonio spirituale dell’anima con Dìo, scopo per il quale l’anima è stata creata, viene comprato dalla Croce, consumato sulla Croce e per tutta l’eternìtà suggellato con il sigillo della Croce””. Ecco, in sintesi, la parte finale dei dramma: l’anno 1942 segna l’inizio delle deportazioni in massa degli ebrei verso l’Est: campi di lavoro, miniere di sale, camere a gas. Di fronte a questi eventi di incredibile ferocia, i Vescovi della Chiesa di Olanda, in accordo con la Chiesa Riformata, inviano al Commissario del Reich un lungo telegramma di protesta (11 luglio 1942).

In seguito a questo passo, il Capo nazista si dice disposto a non toccare quei cristiani di origine ebraica che possono dimostrare la loro appartenenza a una comunità cristiana prima del. gennaio 1941. I Vescovi ritengono del tutto insufficiente questa risposta, perché non tocca la questione di fondo, le deportazioni in massa, e – d’accordo con la maggioranza dei ministri protestanti – fanno leggere in tutte le chiese del paese (domenica 26 luglio) una lettera pastorale, nella quale veniva riportata la protesta e il pressante appello del telegramma. Inoltre si faceva menzione dello scambio di idee intercorso con il Commissario del Reich, e si concludeva con un ardente Appello alla preghiera per la giusta pace e per il popolo ebreo tanto duramente provato.

Conclusione? La mattina del 2 agosto, il commissario del Reich ordina che tutti i religiosi e le religiose non ariani presenti nei conventi olandesi vengano portati via. E nel pomeriggio dello stesso 2 agosto 1942, la Gestapo viene ad arrestare le sorelle Stein. In pochi minuti le due sorelle devono lasciare il convento. Inutile ogni protesta della superiora.

L’ultima parola di Suor Benedetta nel lasciare il Carmelo è indirizzata alla sorella: “Vieni, – le dice prendendola per mano – andiamo per il nostro popolo”.

La sera stessa, il Commissario aggiunto Schmidt rilascia una dichiarazione ufficiale secondo la quale, avendo l’episcopato cattolico rifiutato di rispettare il segreto dei negoziati, le autorità tedesche si vedono costrette a “perseguire i cattolici ebrei, come i loro peggiori nemici, assicurandone il più presto possibile la deportazione verso l’Est”.

Edith fu condotta per alcuni giorni nel campo olandese di Westerbork, e poi, il 7 agosto, fu avviata con gli altri ebrei, su un treno piombato, ad Auschwitz. Questi elementi ci danno la certezza che Edith Stein è stata arrestata e deportata perché cattolica ebrea, e non semplicemente come ebrea, per rappresaglia contro la Chiesa cattolica d’Olanda.

Per gli ebrei cattolici deportati ci fu un trattamento – se possibile – ancora più duro che per gli altri. Ad Auschwitz-Birkenau, all’arrivo dei convoglio, il 9 agosto 1942, le sorelle Stein vengono fatte entrare – con le altre deportate – nella camera a gas.

Nell’ultima lettera che, da deportata, era riuscita a far pervenire al Carmelo di Echt, aveva scritto: “Si può acquistare una “Scienza della Croce” [era il titolo dell’ultimo suo libro, rimasto incompiuto], solo se si comincia a soffrire veramente del peso della Croce. Ne ho avuto l’intima convinzione fin dal primo istante, e dal profondo del cuore ho detto: “Salve, o Croce, unica speranza””.

Nel tunnel della morte, il cuore di Edith palpita: “La Croce è tutta luce: il legno della Croce è divenuto luce del Cristo”.

 

A cura di Diego Fusaro 

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