E’ inutile negarlo viviamo in una società edonistica e iperestetica dove la bellezza fisica si identifica con la perfezione dei lineamenti e delle forme, con l’assenza dei difetti, con l’omologazione a cliché dettati dalla moda a cui tutti uomini e donne spasmodicamente cercano di adattarsi.
Qualunque scostamento da questo modello è suscettibile di generare sofferenza, malessere arrivando ad incidere sul senso della vita. Tutto ciò è in contrasto con il dono prezioso della vita che passa in secondo ordine, anzi talvolta scompare del tutto oscurato da atteggiamenti depressivi di tristezza e di rifiuto. Soprattutto quando la lotta per “assomigliare a”, a causa delle condizioni di partenza, diventa una battaglia persa.
Allora dobbiamo capire che cosa sia la bellezza, quale significato gli diamo, e soprattutto se ce ne sono altri più profondi. Si può scoprire solo in un modo, quando il bello diventa solo una singola espressione del proprio essere. In questa prospettiva la singola imperfezione non è più deturpante, diventa invece il punto distonico che ci rappresenta come “opera unica”. Un piccolo difetto nella dentatura, una fossetta sul mento, delle guance rotonde, l’arrossire per una emozione o dei fianchi un po’ più ampi, e potremmo aggiungere anche altro, sono la rappresentazione estetica identitaria che non ci fa somiglianti a nessun altro.
Nel mistero dell’amore, la fase dell’innamoramento spesso coincide proprio con questo colpo d’occhio sull’intera persona rendendola per noi attraente in quanto unica. E’ sufficiente non farsi distrarre dalla maniacalità dell’attenzione al particolare a cui si attribuisce il tutto o il niente del valore!
Ma quando non è particolare a rendere esteticamente deviante la nostra persona, ma qualcosa di più che dire? Che fare? Non sto certamente parlando della bruttezza, ma di molti reali inestetismi che fanno inevitabilmente soffrire.
Dobbiamo, a questo punto, collocare il nostro discorso su un altro piano. Laddove c’è un fallimento sul piano estetico è necessario approcciare ad una valutazione con un criterio diverso, nuovo e più profondo. Ho chiamato questo criterio: “olistico”. È la visione di insieme a prevalere, lo sanno gli estimatori dell’arte pittorica, non sono i particolari, che addirittura rischiano di essere visti sgradevoli (ad esempio quando si guarda un quadro troppo da vicino). Oppure si può arrivare a decantare alcuni difetti che, in un gioco caleidoscopico con altri, conferiscono alla persona una bellezza particolare ed un fascino unico nel suo genere. Alcuni artisti, come ad esempio il Botticelli, hanno ricercato nelle loro modelle la verità senza alterare minimamente l’originalità. E noi, che oggi dopo secoli osserviamo le loro opere confermiamo la bellezza dei loro dipinti.
Mi è sembrato di trovare il paradigma della bellezza olistica che ho fin qui descritto, nell’albero dell’olivo. Gli olivi appena piantati sono germogli tutti uguali, poi man mano che crescono, con il passare del tempo subiscono una trasformazione deformante che sembra essere frutto dell’azione di uno scultore impazzito. Nel sollevarsi da terra si torcono, in alcuni punti si spaccano e si dividono, Salgono verso il cielo oppure si piegano secondo regole del tutto individuali, o senza regole fisse, crescendo esteticamente uno diverso dall’altro. La pianta dell’olivo è l’unica nella natura ad avere una identità propria, unica e d irripetibile.
Tuttavia, il violare i canoni della perfezione, non disturba chi li guarda. Sembrano essere sculture di una artista fantasma che li plasma proprio con l’obiettivo del renderli diversi nelle forme. A noi che li osserviamo si scalda il cuore e, tutt’altro che scandalizzati, ne ammiriamo le forme con emozione. Passeggiare in un uliveto sembra passeggiare in una mostra il cui Artista non può che essere il Creatore. Non sapremo mai perché il Buon Dio ha scelto l’olivo per questo suo originale gioco artistico, ma sappiamo però che all’olivo vengono attribuiti una miriade di significati in ordine alla preziosità, da quelli profani a quelli sacri. Tutt’altro che sterile questa creatura “deforme” ci offre uno dei frutti più preziosi della terra. Un bene che va dal suo essere commestibile, fino a diventare un simbolo: l’unzione del re, del corpo dell’eroe prima della battaglia e poi la sacralizzazione di un luogo o di una persona. Nessun altro prodotto della terra ha questa prerogativa. Non solo, non ultimo aspetto, ma la sua longevità secolare e la durezza del suo legno diventano l’emblema della resilienza e della stabilità.
Questa descrizione si presta bene ad essere applicata anche a noi, uomini e donne di questo tempo affascinato più da ciò che “sembra” piuttosto da ciò che “è”. Passato il tempo della prestanza fisica arriva quello della sfioritura con i suoi inevitabili segni. Quante persone anziane soffrono di questo passaggio, si sentono inutili e repellenti. Io credo, al contrario, che se si riesce a cambiare questo paradigma vacuo e superficiale, facendo tesoro dell’icona dell’olivo, i segni del tempo che passa possono essere rivisitati e valutati in modo diverso. Le dita della mano deformata dall’artrosi, la schiena piegata, la pelle rugosa diventano uno scrigno in cui è racchiusa la storia della vita che include un insieme di vicende, belle e brutte, ma in cui spesso, ad esempio, il minino contrattuale è la fecondità. Le imperfezioni diventano allora i segni della preziosità unica di quella persona quale “opera d’arte”, e nascondono una bellezza esistenziale (olistica) che solo occhi miopi e superficiali non riescono a scorgere. Anzi sono propri quelle che parlano di una vita vissuta intensamente sia sul piano del lavoro ma anche, e soprattutto, nell’amore e nelle relazioni che contano.
Invito i lettori che ne sono vittime, a fare lo sforzo di cambiare questo paradigma valoriale e a relativizzare la perfezione estetica che spesso è sinonimo di superficialità oggi e di grande tristezza domani. Inoltre, se possono, ad adoperarsi per educare le generazioni future a godere della contemplazione della “bellezza dell’olivo”.