Marco Ermes Luparia
Incontro di riflessione con i Medici del Salvator Mundi international Hospital
E’ da circa un anno che, nell’ambito delle comunità salvatoriane che sono in Roma, si pensava di dare vita ad una occasione di incontro come quella di quest’oggi, con tutti coloro che per un motivo specificatamente professionale si trovano a stretto contatto con il mondo della sofferenza. E giustamente abbiamo voluto iniziare proprio con quei professionisti che, oltre ad essere immersi in questo mondo di dolore e spesso, diciamolo pure, di disperazione, si trovano a sostenere la grave responsabilità di dover dare sollievo sia nella guarigione che nel conforto.
Oggi sono presenti tra di noi: medici, psicologi, studenti di medicina e studenti in psicologia, oltre naturalmente le nostre Suore Salvatoriane ed una rappresentanza di Padri Salvatoriani e Salvatoriani Laici. Chi più di voi, anzi posso dire di noi, può comprendere quale onere si nasconde tra le quinte di una professione spesso ambita e talvolta invidiata?
Con questo incontro e con gli altri che verranno, vogliamo riflettere sulla nostra identità di operatori sanitari, ponendo però la nostra attenzione proprio su quella “o”, apparentemente disgiuntiva, che appare nel titolo della mia riflessione e che ci mette quasi nella penosa situazione di dover optare o per una o per l’altra proposta.
Non è così! Quella “o” che disgiunge, potrebbe essere tranquillamente sostituita da una “e” che coniuga, e ciò può avvenire se non ci si limita ad una banale operazione grammaticale. La “o”, oppure la “e” dipendono da quello che si muove nel nostro cuore, da ciò che risuona nella nostra mente, da ciò che sgorga dal nostro spirito. Dipende in definitiva, dai principi e dai valori che sentiamo palpitare nel nostro agire e sentire per il fratello sofferente.
Oggi di questo vogliamo parlare, oggi su questo vogliamo riflettere, in tutta fraternità. E per farlo, proviamo a metterci nella condizione del “povero di spirito” del Vangelo, ovvero di colui che “sa per il mondo”, ma che non sa nulla e non possiede nulla per il Signore ed aspetta da Lui una parola di illuminazione.
2. “Beati i poveri di spirito…” (Mt 5,3)
Chi sono i poveri di spirito? Non si riflette mai abbastanza su questa pagina evangelica. Apparentemente incomprensibile, in quanto in contraddizione con il nostro modo umano di vedere le cose, ci lascia uno strascico di umana insoddisfazione. I poveri di spirito sono gli stupidi, gli incolti, coloro che non hanno desiderio di approfondire la meravigliosa realtà del creato?
No, i poveri di spirito sono coloro i quali rifuggendo al seduttivo richiamo della carne, si sentono parte integrante del creato in quanto creature. Non arroganti “creatori” in competizione l’uno per l’altro, ma co-attori con Dio, l’unico Creatore.
I poveri di spirito sono coloro che approcciano ai misteri della vita con il rispetto che si deve al “sacro”. Sacro per quanto contiene di meraviglioso, sacro per quanto contiene di inesplicabile, sacro perché contiene l’uomo stesso. Non sono pochi gli scienziati che soltanto a paventare questa possibilità di appartenenza si sentono defraudati della loro identità, delle loro capacità, delle loro potenzialità.
Il povero di spirito è colui che si sente parte di un tutto, ed in questa compartecipazione sente di esaltarsi per ciò che non è suo, ma gli è stato affidato. Essere parte di un tutto richiama una elezione alla comprensione ed impone perciò un rispetto profondo. Il povero di spirito, ricco del sapere che gli è stato affidato, si identifica con la rispettosa creatura.
Nulla di ciò che abbiamo è nostro, tutto ci è stato donato, siamo solo degli affidatari, siamo degli umili strumenti nelle mani di Colui il quale è la vera Sapienza.
A tal proposito non possono non sovvenirci le parole illuminanti del profeta Geremia che giovinetto si trova a dialogare nientemeno che con il Signore (Ger 1,1-4):
Mi fu rivolta la parola del Signore:
“Prima di formarti nel grembo materno, ti conoscevo,
prima che tu uscissi alla luce ti avevo consacrato;
ti ho stabilito profeta delle nazioni”.
Risposi: “Ahimè Signore Dio, ecco non so parlare
Perché io sono giovane”.
Ma il Signore mi disse: ”Non dire: sono giovane,
ma va da coloro a cui ti manderò
e annunzia ciò che ti ordinerò.
Non temerli,
perché io sono con te per proteggerti”.
Oracolo del Signore.
Il Signore stese la mano, mi toccò la bocca
E il Signore mi disse:
“Ecco, oggi ti costituisco
sopra tutti i popoli e sopra i regni
per sradicare e demolire,
per distruggere e per abbattere,
per edificare e per piantare”.
In questa ottica non siamo costretti a ridimensionare ogni nostra qualità, che pur rimanendo, ci impone il quotidiano ringraziamento verso chi guida le nostre menti e le nostre mani?
Quanto spesso dimentichiamo questi aspetti elementari della nostra fede. I segni di questa dimenticanza sono inequivocabili: atteggiamento scostante, insensibilità all’altrui dolore, irrispettosità verso il malato, speculazione sulla sofferenza. Sono solo alcuni dei fattori negativi che emergono inevitabilmente quando alla fin fine si svolge solo una “professione”. La gentilezza, la sensibilità, la sollecitudine diventano degli “optionals”, non sono indispensabili al processo terapeutico.
Eppure anche noi , come Geremia, ci troviamo di fronte al Signore che ci parla, che si affida alla nostra intelligenza e ci affida i suoi misteri, per farne parte ai nostri fratelli. Siamo però sordi. Ecco il vero problema, siamo sordi e ciechi. Siamo più inclini al tradimento ed al furto. E meno sentiamo il fluire del sapere dall’interno di noi stessi, e meno sentiamo il rimorso di questo “plagio sacrilego”. Umiltà e senso della creaturalità sono gli unici elementi che possono in questo momento salvare l’uomo di scienza dal suo “peccato” e l’umanità dalle sue nefaste conseguenze.
Ma come comportarsi, se quello che consideravamo un caso, deve essere attribuito a Qualcuno che ha voluto che ciò fosse e secondo la parabola dei talenti doveva essere poi restituito? Si capirà meglio delineando la figura del medico cristiano.
3. La figura del medico cristiano
Forse un vero e proprio identikit del medico cristiano non è stato ancora tracciato, ma sicuramente sono tanti e tali le indicazioni che ci vengono dai bioetici nei vari settori delle scienze applicate alla vita, che una qualche fisionomia dovremmo riuscire a delinearla.
a) E’ colui che fa propria la sofferenza umana
Egli risponde alla chiamata di Cristo e della sua Chiesa, a stare vicino all’uomo che soffre. E va specificato che non è solo il medico deputato ad essere vicino all’uomo che soffre, ma qualunque persona che per varie ragioni offre la sua conoscenza per alleviare questa sofferenza, quindi tutti gli uomini di scienza. L’interesse della Chiesa per i sofferenti, non è di oggi: fa parte della sua storia, l’accompagna di giorno in giorno e trova il suo principio nello stesso comportamento di Gesù Cristo (1). In esso Giovanni Paolo II rileva con forza l’esigenza morale della Chiesa di “cercare l’incontro” con l’uomo sofferente.
Questo servizio si può esprimere in molti modi. Nell’ambito della salute, nell’ambito dell’ecologia (2), nell’ambito dell’economia e nell’ambito di tutte le scienze che in una maniera o in un’altra riconducono all’uomo.
In definitiva il medico cristiano è l’uomo del servizio agli altri che soffrono, e per essere stato il primo in termini di “talenti”, si fa ultimo per risposta evangelica.
b) Colui che risponde alle sfide del momento storico culturale
La malattia, la morte, la sofferenza, sono esperienze di tutti gli uomini e da sempre. Il medico cristiano trova la sua peculiarità nel rispondere a questa sfida ponendosi in una ottica prevalentemente creaturale. La sfida intesa come acquisizione di conoscenza per un servizio. Oggi la scienza intende per sfida la ribellione alle leggi della vita e risponde con la manipolazione distruttiva.
In sintesi, potremmo dire che lo scienziato cristiano è colui il quale non smette mai di interrogarsi sulla propria identità, sulla sua natura e funzione. Proprio in questa direzione si muove il magistero di Giovanni Paolo II nell’ambito della bioetica. Egli richiama i ricercatori cristiani ad una alleanza profonda tra scienza e sapienza, come vedremo nel punto successivo.
c) Colui che rende possibile l’alleanza tra scienza e sapienza.
Gli interventi magistrali di Giovanni Paolo II sui problemi della bioetica trovano il loro contesto generale in una convinzione fortemente ribadita dal Papa: “La scienza è chiamata ad allearsi con la sapienza”.
In poche parole questa alleanza è sinonimo di utilizzazione delle nuove tecnologie per la promozione umana. Rifiuto delle tentazioni di perseguire lo sviluppo tecnologico come fine a se stesso, di asservire lo sviluppo tecnologico all’utilità economica in conformità alla logica del profitto al servizio dell’ideologia dell’avere, asservire le scoperte mediche all’acquisizione del potere (3).
In definitiva, sapienza è sinonimo di obbedienza, in sé liberante, alle esigenze etiche.
d) Colui che sente la propria professione come una missione.
Giovanni Paolo II spesso si è richiamato a questa caratteristica riferendosi però all’identità del medico cattolico. Nulla ci vieta di allargare questo concetto a qualunque altro scienziato. Sentire la propria professione come missione significa uscire dagli schemi utilitaristici e di profitto per entrare in un rapporto di condivisione dei frutti del sapere. Il sapere diventa strumento di crescita personale e di progresso nella misura in cui si confronta e si verifica con la gratuità.
Sentirsi in missione sta a significare proprio questo, sentire di dover restituire quanto abbiamo ricevuto in termini di qualità personali e di carismi (intelligenza, sensibilità, attenzione all’altro, introspezione, ecc.).
Come ha detto il Papa (4), assistere, confortare, guarire. Ma io aggiungo anche che, conoscere, inventare, produrre per il bene di tutto il genere umano, per idealità si avvicina da presso alla vocazione sacerdotale.
Questo termine, “vocazione”, dice già tutto sul come può essere vissuto, dal medico cristiano, il proprio compito. Una vocazione, una chiamata, non può che eleggere il chiamato ad una risposta di amore verso Colui che lo chiama in questo modo così speciale.
e) Colui che si sente “collaboratore di Dio”.
Se non fosse che questo termine è stato usato dal Santo Padre Giovanni Paolo II (5) in un’occasione del tutto particolare , avrei tremato ad utilizzarlo. Non certo per paura di essere blasfemo, ma semplicemente per la gioia che evoca in me sentire che è possibile essere chiamati a questa elezione. Se questa elezione vale per tutti gli uomini qualunque sia la loro attività, per il medico essa si coniuga ad una gravissima responsabilità.
Per il medico cristiano sentirsi chiamato a rispondere alla chiamata di essere collaboratore di Dio, significa sapersi assumere questa grave responsabilità davanti a Lui e davanti agli uomini.
Ma una grande maturità deve essere sottesa per essere all’altezza di questo sublime compito. Non c’è prova di maturità più grande che quella che deriva da un atteggiamento di riconoscenza e di umiltà. L’umiltà è la risposta più alta che può dare la creatura, per mostrare una riconoscenza infinita al suo Creatore.
f) Colui che si sente custode della vita umana
Nella nostra epoca è sempre più invalsa la convinzione materialistica che l’uomo è padrone della propria vita. Ogni singola persona è convinta di ciò. Basti pensare all’eutanasia. Addirittura si è arrivati al suicidio assistito (a pagamento, sia chiaro!).
Il medico cristiano e cattolico non si sente padrone , né della sua, nè dell’altrui vita. L’universo, la terra e tutto ciò che in essa è contenuto, sono il risultato di un gesto che Dio autonomamente, per la sua infinita bontà, a voluto compiere verso il genere umano. Ma Egli ha affidato il Creato all’uomo, non gliene ha dato la proprietà.
Dare e affidare hanno due significati molto diversi. Dare sottende un potere totale e definitivo che mette il proprietario nella condizione di non avere bisogno di altri referenti, se non se stessi. “Affidare”, richiama una relazione diversa dalla proprietà, significa che in ogni momento, l’uomo deve rispondere a Dio della sua “gestione” del Creato. Il medico cristiano deve sentire fortemente questo affidamento. Come elezione e come responsabilità.
g) Colui che si conforma a Cristo con una vita di carità
Come può un medico improntare la propria vita alla carità senza deviare dalla sua “vocazione”?
Innanzitutto con la coscienza che “non la scienza, ma la carità trasforma il mondo”. Non è una forzatura leggere nell’umiltà di Sabin anche la riconoscenza verso Colui il quale gli ha affidato la grande intuizione del vaccino anti-poliomielite, per portare sollievo alle sofferenze di tanti suoi figli.
4. L’agire medico come atto di amore cristiano
Senza voler girare intorno al problema, abbiamo un esempio fulgido e recentissimo di che cosa significa essere medici ed essere cristiani. La vita di S. Giuseppe Moscati, il medico santo, è un compendio vivente di etica cristiana vissuta nella professione. Tutto il suo agire è la testimonianza di una risposta ad una chiamata ritenuta speciale (6).
Giuseppe Moscati, medico, primario ospedaliero, insigne ricercatore, docente universitario di fisiologia umana e di chimica fisiologica, visse i suoi molteplici compiti con tutto l’impegno e la serietà che l’esercizio della docenza richiedeva. Da questo punto di vista Moscati costituisce un esempio da ammirare e da imitare, non solo per gli operatori sanitari, ma anche per tutti coloro che direttamente o indirettamente sono impegnati nell’assistenza degli infermi, e per tutti gli scienziati in generale. Egli si pone come esempio anche per coloro che non condividono la nostra fede cristiana.
Fu proprio questa fede a conferire al suo impegno dimensioni e qualità nuove, quelle di uno scienziato laico ed autenticamente cristiano. Grazie ad esse gli aspetti professionali, nella sua vita, si sono integrati armoniosamente fra loro, e si sostenevano l’un l’altro, per essere vissuti come risposta ad una vocazione e quindi come collaborazione al piano creatore e redentivo di Dio.
Per indole e per vocazione Moscati era innanzitutto un medico che curava: il rispondere alle necessità degli uomini ed alle loro sofferenze fu per lui un bisogno imperioso ed imprescindibile. Il dolore di che era malato, giungeva a lui come il grido del fratello per il quale, un altro fratello, il medico, doveva accorrere con sollecitudine ed amore.. Il movente della sua attività non fu dunque solo il dovere professionale, ma la consapevolezza di essere stato posto da Dio nel mondo per operare secondo i suoi piani, per apportare con amore, il sollievo che la scienza medica poteva offrire a lenimento del dolore e riconquista della salute fisica.
Memore delle parole del Signore: “Ero malato e mi avete visitato” (Mt 25,36), Moscati vedeva Cristo stesso nel malato, che nella sua condizione di malattia, si rivolgeva a lui invocando attenzione ed aiuto. Vedeva una persona, non un corpo bisognoso di cure.
Il medico non ha di fronte a sé una persona malata, ma ha l’intera umanità a cui deve rispondere o in termini di amore o in termini di rigetto. Ecco la polivalenza dell’insegnamento di Giuseppe Moscati.
Nel costante rapporto con Dio, egli trovava la luce per meglio comprendere e diagnosticare le malattie e, nello stesso tempo, il calore umano per essere vicino a coloro che, soffrendo, attendevano il medico a cui potersi affidare.
Da questo profondo e costante riferimento a Dio, egli traeva la forza che lo sosteneva e che gli permetteva di vivere con integra onestà e assoluta rettitudine sia nell’ambiente quotidiano che nell’ambiente scientifico, di cui godeva del massimo rispetto. Egli era il “maestro”, il Primario Ospedaliero che non ambiva a posizioni: se queste gli venivano attribuite era perché i suoi meriti non potevano essere negati, e quando occupò posti di rilievo, seppe esercitare l’autorità con grande rettitudine e generosità verso i colleghi, gli studenti ed i malati.
Uomo integro e cristiano coerente, non esitava a denunciare gli abusi, adoperandosi per demolire prassi e sistemi che andavano a detrimento della vera professionalità e dello spirito scientifico, a danno degli infermi e degli studenti. A questi ultimi sentiva forte il desiderio di trasmettere il meglio delle proprie cognizioni. Gli studenti sono i medici del domani. Cosciente di ciò faceva di tutto affinché non venisse in alcun modo mortificata la loro preparazione e formazione. Preparazione e formazione che innanzitutto dovevano essere incarnate dall’esempio personale. Perfino la morte lo colse mentre stava visitando un’inferma.
Ogni aspetto della vita di questo “laico”, medico e santo, ci appare animato da quella nota che è la più tipica del cristiano coerente alla propria fede: l’amore che Cristo ha lasciato ai suoi seguaci come “comandamento”. Di questa sua personale esperienza del valore centrale del cristianesimo nella scienza e nella vita, egli ha lasciato numerose tracce nei suoi scritti. Sono parole che suonano come un testamento, da una parte, e come una grande dichiarazione etica dall’altra, e con le quali desidero chiudere questo paragrafo, cosciente anche io, con lui e come lui, di essere Suo strumento, parte di questo Suo grande progetto d’Amore:
“Non la scienza, ,ma la carità ha trasformato il mondo; solo pochissimi uomini sono passati alla storia per la scienza, ma tutti potranno rimanere imperituri, simbolo dell’eternità della vita, in cui la morte non è che una tappa, una metamorfosi per un più altro ascenso, se si dedicheranno al bene.” (7)
5. La sofferenza umana, nel Diario di Padre Jordan
Mi pare doveroso per un salvatoriano, in conclusione, rappresentare il pensiero e la spiritualità, a tal proposito, del Servo di Dio Padre Francesco Maria della Croce Jordan, Fondatore di Salvatoriani e delle Salvatoriane.
Egli, da subito, aveva avuto la profetica intuizione di quanto fosse importante l’apostolato dei laici nella Chiesa. Cercò in tutte le maniere di raccogliere intorno a sé tutte quelle categorie professionali che per la loro specificità potevano diventare fucine di formazione di autentici messaggeri di Cristo. Aveva in gran cuore i medici, gli imprenditori, gli educatori, gli amministratori dello stato, e perfino i ristoratori. Aveva in gran cuore, insomma, tutti coloro a cui sarebbe stato sufficiente testimoniare con la loro vita l’amore per Gesù, perché ciò fosse colto simultaneamente da tante anime in cerca del sollievo della fede.
Ma Padre Jordan è stato anche un uomo che ha molto sofferto. La mole di lavoro e le difficoltà che sono insorte nel cammino di costruzione della sua imponente opera apostolica non lo avevano risparmiato sia nel corpo che nella mente, ma mai nello spirito. Saldo nella sua fede in Dio e nella Provvidenza ha sempre tirato diritto per la strada indicata dal Signore.
Questa sofferenza diretta appare spesso nel Diario, ma non è la sua personale tribolazione che voglio mettere in risalto, bensì la sua sensibilità alla sofferenza degli altri ed il mandato che egli affida ai suoi figli spirituali per l’attualizzazione del messaggio evangelico. Nel suo Diario Spirituale (pag.10) egli così scrive:
“Consola gli afflitti specialmente quelli che sopportano gravi mali psichici, non dimenticare mai che compi un’opera molto gradita a Dio; l’Eterno Padre ha invero mandato al Divin Figlio nell’orto degli ulivi, un angelo dal cielo per confortare il Salvatore, triste fino alla morte, e tu vorresti venire meno ai tuoi simili malati? In caso che tu ascolti confessioni, sii specialmente compassionevole e consolatore verso le anime molto provate.”
Che dire di questa pagina? Da sola dice tutto! Il riferimento alle malattie psichiche non deve sviare dalla portata molto più ampia di questo testamento, e così pure il riferimento alla confessione che non deve essere visto solo in un’ottica sacramentale. Ognuno di noi, nel momento in cui visita un ammalato si trova di fronte ad un’anima tribolata nella mente, nel corpo e nello spirito.
Come sento vicini fra loro San Giuseppe Moscati e Padre Jordan. Il primo interprete magistrale dell’amore di Cristo, il secondo potente motore spirituale.
Volendo tradurre il passo del Diario Spirituale in un messaggio esplicito, è come se Padre Jordan ci avesse lasciato questo mandato spirituale: “Solo vivendo il Vangelo nel mondo della sofferenza, facendosi Cristo Servo per l’uomo che patisce, si può trasformare una professione in una missione, un atto medico in un’opera apostolica”. In quanto tale sempre sottoposta alla supervisione di Colui il quale ci ha dato gli strumenti per compierla.
Forse ora si capisce meglio il perché siamo qui riuniti. Siamo qui per chiederci se vogliamo raccogliere la sfida del mondo secolare, se vogliamo brillare sopra il moggio in quanto cristiani ed in quanto operatori sanitari, se vogliamo, con semplicità, essere parte di questa opera apostolica, a cui Cristo malato e sofferente ci chiama.
Per questo abbiamo sentito il bisogno di incontraci, di ricercare una opportunità di confronto, siamo qui anche per donarci reciprocamente il nostro sapere mettendo al bando le chiusure e gli egoismi scientifici, siamo qui per valutare che fare del domani.
Con questo spirito si muove il Movimento Salvatoriano Laico, sogno nel cassetto di Padre Jordan, e che oggi è diventata una realtà nuova e stimolante. Oggi è con questo spirito che la grande Famiglia Salvatoriana composta di Padri, Fratelli, Suore e Laici opera in tutto il mondo. Ognuno nel proprio stato di vita, nella propria professione, pronti ala missione con la spiritualità evangelica che permea il carisma salvatoriano:
“Che tutti conoscano Te, l’unico vero Dio e Colui che hai mandato Gesù Cristo” (Gv 17,3)
Per noi operatori sanitari, il quando ed il come questa missione può essere tradotta nella prassi, si può riconoscere in quel passo del diario di Padre Jordan che da tutti i Salvatoriani è riconosciuto come l’icona del mandato spirituale.
“Finché c’è un solo uomo sulla terra, che non conosce e ama Dio
sopra ogni cosa, non t’è permesso riposare un momento.
Finché Dio non sia glorificato dappertutto, non t’è permesso riposare un momento.
Finché la regina del Cielo e della Terra non venga onorata
dappertutto, non t’è permesso riposare un momento.
Nessun sacrificio, nessuna croce, nessun soffrire, nessuna desolazione, nessuna tribolazione, nessun attacco, oh nulla ti sia troppo difficile con la grazia di Dio.
Posso tutto in Colui che mi conforta.” (8)
Chi più di colui il quale si trova nella malattia, che si trova in questo stato di tribolazione e di bisogno, necessita della nostra sollecitudine ed abnegazione?
L’incontro di oggi non sarà certo l’ultimo. Per chi vorrà ci sarà ancora l’opportunità di un “agape”. L’agape del confronto scientifico, dell’azione missionaria, della preghiera. Cristo sofferente ci attende: dietro l’angolo, nel nostro studio, nell’ospedale, in terra lontana di missione. A noi, e solo a noi, non rimane che dire: “Eccomi Signore, fammi strumento del tuo grande progetto d’Amore!”.