SOFFERENZA E MORTE NELLA VISIONE CRISTIANA

da | Lug 16, 2015 | ANTROPOLOGIA, RELIGIONE, SPIRITUALITÀ

SOFFERENZA E MORTE NELLA VISIONE CRISTIANA

da | Lug 16, 2015 | ANTROPOLOGIA, RELIGIONE, SPIRITUALITÀ

Il significato della sofferenza e della morte nella visione cristiana

Diac. Prof. Marco Ermes Luparia
Introduzione

Sapevo fin da bambino che la mia strada sarebbe stata quella che ora percorro da circa trentacinque anni. Sette lustri in cui l’immersione nella penosa vicenda del disagio mentale, mi hanno fatto rendere conto di due elementi che non ho mai più dimenticato, ed invito anche voi a fare allo stesso: 1) la sofferenza fisica (o mentale) e la malattia indeboliscono e rendono vulnerabile l’essere umano portandolo a regredire, qualunque sia la sua età, alla condizione di bambino; 2) il potere di colui il quale ha in mano il destino e la salute di un altro, in virtù di questa debolezza, sale a dismisura fino ad arrivare a quello di avere la in mano la vita stessa del suo simile.


Non volendo chiamare in causa gli atti delittuosi, possiamo dire che l’esperienza ospedaliera o di relazione terapeutica è l’unica esperienza umana in cui “il potere sull’altro” assume un risvolto positivo. Trattandosi del “potere su”, non possiamo esimerci dal chiamare in causa aspetti etici e deontologici che sarebbe stoltezza considerare quali semplici articoli di una normativa professionale, invece essi dicono della stessa natura e sostanza dell’atto, ancor più se è un atto terapeutico.
Ho voluto porre la questione a livello di introduzione poichè a mio avviso essa riveste importanza primaria e richiede all’inizio di questa conversazione una vera e propria virata interiore, con la disponibilità conseguente a cambiare la rotta, etica e spirituale, ove ciò fosse necessario.

Dolore e sofferenza una sinonimia fuorviante

Nel linguaggio parlato, ma anche nella percezione psicologica di eventi negativi, l’uomo moderno non fa più alcuna distinzione tra sofferenza e dolore. Se in alcuni casi ciò non desta alcuna sorpresa in altri invece diventa fuorviante .
Ad esempio il malato sente il dolore di una patologia fisica che i suoi cari non possono e non potranno mai provare. Ma questi ultimi per l’amore che sentono verso di lui soffrono moralmente e psicologicamente partecipando anche con una certa intensità alle sue tribolazioni.
Questo distinguo è anche utile per capire la nobiltà ed il limite della compassione nonché ad avvicinare il malato nel pieno rispetto del suo dolore fisico partecipandogli una vicinanza affettivamente ed emotivamente significativa e realistica.
Il dolore fisico non può essere esportato e, come vedremo, nonostante l’umanità fin dai suoi albori ha cercato di tenerlo lontano esso fa parte della natura caduca della creatura e non potrà mai essere evitato.

a. La sofferenza

Oggigiorno la sofferenza ha un significato esclusivamente negativo, essa è sinonimo di disgrazia, un qualche cosa che deve essere tenuto lontano in tutti i modi possibili, leciti o illeciti. E’ diritto dell’uomo conquistare la felicità. La deontologia sottesa in carte costituzionali, ribadisce in varie forme il diritto dell’uomo alla felicità. Peccato che l’uomo occidentale sia caduto nella trappola mortale di una sinonimia quanto mai nefasta: felicità e piacere si equivalgono.
Se ci fermiamo a riflettere ci accorgiamo che non solo non è così, ma che considerali sinonimi conduce verso atteggiamenti paradossali che invece di condurre alla felicità, portano sempre più verso la china della depressione e della disperazione.
La felicità è una emozione superiore che spesso richiede, per essere raggiunta, lunghi periodi di sofferenza e di fatica. Il piacere invece segue le leggi della psico-fisiologia e vuole la sua immediata soddisfazione, non accetta procrastinazioni. Il piacere è, per così dire, un obiettivo di “basso profilo”, importante certo, visto che tutte le funzioni vitali si legano ad una esperienza piacevole, ma pure sempre molto grezzo in sè. Così l’uomo crede di essere felice se si procaccia più esperienze piacevoli possibili e se tiene lontano da se il dolore in tutte le sue forme: malattia, dinieghi, impegno, responsabilità, ecc, ecc.. Affermazione falsa, noi crediamo che l’uomo è veramente felice solo quando da un significato pieno alla propria vita, in tutti i suoi aspetti, dolore compreso.
La sofferenza fa parte della natura dell’uomo ed insieme alla gioia ed alla progettualità conferisce spessore ad ogni gesto ed ogni atto in se o inserito in una relazione.
Nella relazione terapeutica spesso sono proprio i pazienti ed i loro familiari a distorcere il significato profondo dell’esperienza della malattia. Essi vengono dal mondo è ovvio, per cui non possono che portare in loro, la sua logica fatta di richieste di una taumaturgia che segua lo schema edonistico della vita: “Io non voglio soffrire e tu devi allontanare da me il dolore; io non voglio morire tu mi devi salvare!”. Questi sono i due imperativi categorici che risuonano in tutto il mondo della sanità.
Dobbiamo prendere coscienza che il vero atto terapeutico parte dalla compassione, ovvero dal patire-con, dal fare propria la sofferenza dell’altro. Senza la compassione l’atto terapeutico, efficace o inefficace, è un gesto in partenza claudicante. E rimane claudicante anche qualora raggiungesse il suo risultato finale.

b. Il dolore umano

Nell’umana esperienza della malattia i chiamati in causa sono sicuramente più di uno. Eccetto casi particolari di solitudine, il momento della sofferenza fisica o psicologica di uno corrisponde a momenti altrettanto lancinanti di sofferenza per molti.
Assistiamo ad una gerarchizzazione del dolore. Esiste un dolore degno di attenzione e di rispetto, ed un dolore, fatto di ansie e di patemi, che gode del rispetto minimo dell’ineluttabile. La logica di fondo è che questo secondo dolore ognuno lo deve saper gestire da se. Non è affare della medicina.
Questa forma mentis mi lascia fortemente perplesso, perché mette in luce solo la parte tecnicistica della scienza medica e dell’atto terapeutico. La scienza medica, nella sua accezione più nobile, nasce, a mio avviso, nel momento in cui qualcuno da senso e significato all’esperienza dolorosa personale ed altrui. Non può esservi stata altra motivazione all’origine se non questa. E’ un fatto di senso, di compassione dato alla vicenda umana in tale o tal’altro risvolto particolare. La scoperta dell’anestesia non è stata certamente stimolata da esigenze chirurgiche, o quanto meno non in senso stretto, amputazioni o interventi di vario tipo per lungo tempo si sono svolti in assenza di ogni forma di anestetico. Evidentemente chi ha scoperto l’anestesia prima ancora di cercare di migliorare la tecnica chirurgica si deve essere interrogato sul senso di quel dolore in cui era implicato.
Questa condizione di impotenza e di penosa passività viene vissuta costantemente dai familiari dell’ammalato. Spesso soli abbandonati, assistono nel silenzio ai successi o agli insuccessi della medicina. Non possono fare altro che questo: assistere. E noi chiediamo loro proprio questo saper stare nell’angolo e saper attendere. Come se fossero elementi speciali dello staff, inerti a qualunque sollecitazione. Automi in attesa del bollettino medico che sanziona se la freccia va su o va giù.
c. Non sempre è così

C’è un evento esistenziale di portata unica che contraddistingue la natura dell’uomo in quanto creatura a cui viene affidata una scintilla della fecondità di Dio: la gravidanza, il travaglio ed il parto.
Nessuno potrà mai contestare la peculiarità di questo evento che risale ai primordi dell’umanità e che attinge alla profezia di Dio stesso : “Partorirai con dolore”.
Nonostante la natura edonistica dell’uomo possiamo rimarcare che questo evento che genera dolore e sofferenza non solo non viene evitato, ma fortemente ricercato per dare compimento alla vita di un uomo e di una donna.
In questo evento nessuno si potrà mai sostituire ad una donna in sala parto ed assumersi il dolore fisico che prelude l’evento nascita, tuttavia sono molti che com-patiscono con lei in senso affettuoso e con grande emozione.
Per ciò detto viene dimostra la tesi, inclusa in questa mia conversazione, che vuole solo affermare che se l’uomo non può glissare la sofferenza ed il dolore può però conferirgli un significato utile a dare senso alla propria esistenza.

L’impegno accanto ai sofferenti

L’impegno accanto ai sofferenti, sia esso da medico, da infermiere, da recptionist, da impiegato amministrativo è un privilegio grande. Senza questa coscienza non si va da nessuna parte e la floridezza di una istituzione è effimera.
E’ il privilegio di essere entrati come attori nel grande Cuore di Dio. Non è una esperienza umana è una esperienza divina, sacra, e deve essere presa in considerazione con il rispetto del caso. Non si entra in una loggia imperiale per fare un pic-nic, ma per osservare le bellezze dell’arte e le vestigia del passato.
Un ospedale è più di una loggia imperiale è un vero e proprio Santuario, dove Dio stesso alberga, è la sua dimora preferita. Come una madre non lascia per un attimo il capezzale del figlio in coma, allo stesso modo Dio non lascia neppure per un attimo i suoi figli nel letto del dolore. Dobbiamo esserne convinti! Come dobbiamo essere convinti che Dio ha delle mani, un volto e parla. Se noi daremo a Lui noi stessi, Dio avrà il nostro volto, le nostre mani, e la nostra voce. Altrimenti rimarrà, addolorato, nell’ombra e nel silenzio. Esiste privilegio più grande, esiste attività umana che possa configurarsi in questo modo così speciale?
In un mondo dove l’Io si è sostituito a Dio, credo proprio che la cura dei malati continui ad essere da sempre il paradosso divino della natura umana, che nella sua componente carnale è chiamata solo al proprio interesse e tornaconto. Meraviglia delle meraviglie! Per una volta l’uomo alza lo sguardo dal proprio ombelico e si rivolge alla pena di una altro!

a. Circolarità e globalità dell’atto terapeutico

Così considerato l’atto terapeutico non può essere appannaggio di pochi. Lo è solo per la sua componente strettamente tecnica, ma non visto nell’insieme delle variabili in gioco, tra cui non dimentichiamo quelle spirituali.
E quali sono le figure implicate in questa meravigliosa avventura? Il malato innanzitutto, la sua famiglia poi, la comunità cui appartiene, i medici, le infermiere, il personale amministrativo e di accoglienza, il cappellano dell’ospedale.
Tutti, in modo diverso, sono inseriti nel processo terapeutico. Nessuno è opzionale, siatene convinti.
Vi è una diversità di funzioni, non una gerarchia. Se vogliamo che tutto, ma proprio tutto, vada per il verso giusto, ognuno di noi chiuda in se stesso una porzione del processo. Nel suo insieme alla fine vi sono due possibilità: o noi vedremo un quadro che può essere un’opera d’arte da tramandare ai posteri, o un’opera che ha degli spunti meravigliosi con affiancate indicibili brutture.
Non vorrei entrare nello specifico, lo faccio solo per chiarire il concetto L’abuso della propria autorità, qualunque sia è una bruttura, sia verso lo staff che nei confronti del paziente. Il turpiloquio in sala operatoria è una bruttura. L’essere scorbutici con i familiari degli ammalati che vengono visti come noiosi e fastidiosi è una bruttura. La scostanza nella fase delicata del ricevimento pazienti è una bruttura. Ognuna aggiunga quello che viene dalla propria personale esperienza e vedrete che per avere un opera d’arte non bastano solo degli spunti, ci vuole il godimento della visione di insieme.
La capacità dell’artista principale sta nel mettere insieme tutti questi tasselli in una melodia. Tutti possono dare molto. Il coraggio dei familiari diventa la fiducia dell’ammalato. E la fiducia dell’ammalato diventa l’energia personale di reazione all’atto medico. Tutti sappiamo che non è poco, non è necessario essere psicologi.
Il sorriso dell’infermiera ha una vis consolatoria inaudita. Rilassa, infonde fiducia, crea la base dell’alleanza terapeutica con il medico deputato all’azione sostanziale. Vi sembra poco?

b. Chi dà e chi riceve?

La forma interrogativa di questo paragrafo la dice lunga. L’icona della relazione di aiuto in cui il malato e chi si occupa di lui sembrano mostrare una consequenzialità lineare che non è pienamente significativa della profondità della relazione che si crea tra persone in questo particolare frangente che chiamiamo malattia.
La figurazione circolare fatta di un “dare” ed un “ricevere” di diversa natura si dimostra più vera, forte e feconda. Chi decide di stare fuori da questa logica della reciprocità si perde la parte più cospicua e ricca per sè e per la propria vita.
Basterebbe fare appello alle innumerevoli testimonianze di quanti siano i casi in cui il letto del dolore diventa il luogo della “buona e vera eredità” quella che conta: concordia ed amore, fuori e dentro al famiglia. Esempi di riappacificazioni hanno avuto questo speciale scenario dove la storia intrisa di orgoglio e di rancore si trasforma in pace profonda, quella del cuore.
Anche lo staff medico e altri pazienti vengono coinvolti e per osmosi spirituale vengono indotti da questi edificanti esempi ad agire beneficamente nella stessa direzione. Anche le modalità con le quali si mostra l’amore profondo per la persona ammalata che noi amiamo cambiano la loro espressione.
I comportamenti affetti non sono solo verbali ma richiamano i criteri della relazione primaria in cui la dichiarazione di amore doveva essere supportata e confermata dalle sue espressioni sensibili: cure e carezze. .I figli si pendono cura dei loro genitori per medicazioni o per igiene personale come se fossero i loro figli infanti superando imbarazzo o vergogna.
Le testimonianze di chi racconta questi straordinari frangenti dicono di quanto siano grandi ed irreversibili le trasformazioni della persona a fronte di queste esperienze straordinarie di amore sensibile.

L’esperienza della malattia come occasione di conversione

L’atto terapeutico non è solo una delle tante e possibili attività umane, ma è una esperienza che chiama in causa la vita ed i suoi significati più profondi. I suoi perché, il suo divenire i suoi significati collettivi. Insomma nel momento del dolore cambiano completamente le coordinate di riferimento per tutti; i colori dell’esistenza si trasformano e la profondità della riflessione cambia radicalmente. Ciò che prima era irrilevante diventa sostanziale e viceversa.
Per dirla in poche parole l’esperienza del dolore è una irripetibile occasione di conversione. Questo è il punto più importante in assoluto, questo è il punto focale di tutto, attorno al quale ogni altro gesto diventa, seppur importante, comunque accessorio. Come il pane per le folle, di cui si è preoccupato Gesù, o per la vista dei ciechi, ecc., ecc.
Non è la riuscita di un intervento chirurgico che converte, così come non sono le gioie della vita a fare crescere come persona, è l’esperienza stessa della sofferenza che richiama i cambiamenti profondi. Sono le esperienze con le persone che chiudono gli interrogativi e in se stessi, o edificano o avviliscono, comunque vadano le cose. Allora come cristiani impegnati nel mondo della salute abbiamo prima di tutto in mano lo strumento della testimonianza della nostra fede. Certo è un modo speciale, ma può essere semplificato anche dicendo così: Chi ci affida la propria vita, ci affida anche il suo cuore e la sua anima. Vi sembra che sia poco? Non credete che questo obiettivo sublime richieda la sua giusta, se non primaria, attenzione?
Se uniti nella compassione, il dolore altrui diventa occasione di conversione anche per noi. Il coraggio, la fede, l’affidamento che in tante parti generano addirittura dileggio, diventano testimonianza anche per noi. Spesso dimentichiamo che la preghiera degli ammalati per noi medici o infermiere è il carburante fondamentale per la nostra faticosa attività, è la fonte dell’ispirazione, è lo stimolo e la motivazione a fare sempre meglio e per più persone.
Il contatto con la sofferenza fisica e con la precarietà della vita diventano preziose occasioni di rileggere la propria esistenza fin nei minimi particolare soprattutto per ciò che riguarda il senso che gli è stato dato fino a quel momento.
La parola conversione non deve fare pensare immediatamente ad una evento spirituale e religioso (che può comunque sempre esserci) ma ad una inversione del senso di marcia che ri-orienta la vita verso valori non vissuti o vissuti male. Chi compie questo atto vedrà che le persone intorno, sopratutto quelle care, assumono volto e valore diversi resi visibili dallo sfaldarsi delle cateratte dell’individualismo e dell’autoreferenzialità facendo scoprire in primissima istanza innanzitutto quanto sia grande il bene che ci è stato fatto. Di conseguenza appare quel sentimento quanto mai obsoleto ai giorni nostri: la riconoscenza e la disponibilità al perdono

Nella visione cristiana quello che è stato solo descritto appare più forte e significativo di cambiamenti che riguardano il proprio benessere spirituale.
Nonostante la natura umana sia uguale per tutti quando andiamo a toccare i significati da dare all’esistenza ecco apparire innumerevoli differenze.
La vita di fede dice che la nostra presenza in questo peregrinare terreno è solo una parentesi circoscritta nel tempo che prelude , se Dio vorrà, ad una esperienza che non avrà fine.
In questa ottica il bene a cui aspirare non chiude tutti gli eventi e le reazioni ad essi collegate qui su questa terra, ma lascia spazio alla certezza di un re-incontro che in un’altra forma a luogo e sarà per sempre.
Amo per questo dire sempre che per un cristiano non dovrebbe esistere una data di morte che sarà utile solo per dare parametri identificativi di una porzione di esistenza, bensì tre date di nascita:

• La data di nascita alla vita
• La data di nascita alla Fede (il Battesimo passaporto per l’eternità)
• La data di nascita al Cielo (quando per la misericordia di Dio saremo chiamati per l’eternità alla sua visione beatifica)

Basterebbe questo per convincerci che anche l’evento più nefasto, la morte, è sempre un arrivederci legato al mistero della nostra esistenza. Anzi un “addio” nel senso più profondo e spirituale del termine, concentrato di vera speranza come ci dice il suo significato letterale: ”ad Deum” se Dio vorrà ci vedremo di là per non separarci mai più.

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Marco Ermes Luparia
Diacono Permanente della Diocesi di Roma
Psicologo, Psicoterapeuta, Antropologo Prenatale
Presidente dell’Apostolato Accademico Salvatoriano

Saggi dell’autore:

• Famiglia alzati e cammina, San Paolo, 2009
• Liberi per amare, Lateran Universiy Press 2011, Città del Vaticano
• Prevenire la pedofilia..cominciando da noi, Lateran Universiy Press 2012, Città del Vaticano
• Elogio alla donna, Lateran Universiy Press 2012, Città del Vaticano
• Profeti nell’ombra, Lateran Universiy Press 2013, Città del Vaticano
• Quale uomo?, Lateran Universiy Press 2014, Città del Vaticano
• La calunnia nella Chiesa, Lateran Universiy Press 2015, Città del Vaticano